Ferrenzi: l’influenza della politica

Andrea Picciuolo
6 min readJul 23, 2021

Qualche giorno fa, con l’occasione della discussione in Parlamento di un decreto legislativo, si è ingenerato un confronto, a distanza, tra un senatore della Repubblica e una nota influencer e imprenditrice nel settore della moda.

La faccenda ha avuto una grande risonanza mediatica, e non è perciò il caso qui di dettagliarla (basterà far riferimento al post del senatore).

L’evento mediatico offre però lo spunto per osservare, e commentare, un ulteriore esempio dell’influenza del politainment nella costruzione e nella gestione della personalità semiotica del politico (e di conseguenza del suo posizionamento strategico).

Il “confronto” con un influencer su un tema tipico della cosiddetta identity politics è poi emblematico di un’èra in cui gli influencer (e i brand), ritenendo spesso (e chissà perché) sature, e dunque non più attraenti, le posizioni del quadrato semio-logico delle assiologie del consumo, si affollano nel campo del purpose. Le due azioni, intrecciandosi, danno vita quotidianamente a uno spettacolo in cui il politico fa il brand e il brand fa il politico.

Un quadro arricchito, per dir così, dalle trasformazioni dell’infosfera generate, anche, dall’affermazione delle reti sociali e dei media digitali.

L’evento mediatico di cui qui si parla, oltre che l’eco dei legacy media ha generato pure molti commenti specialistici, spesso utili, perlopiù incentrati sull’attuale ruolo degli influencer nel supporto di cause “politiche”, e sulla loro efficacia nel creare maggiore conoscenza e partecipazione: la celebrity politics.

Qui si vorrebbe però entrare nel merito dell’evento da un varco laterale, e guardare soltanto alle operazioni di image-making del politico di turno, soprattutto nella (o se si vuole sfruttando la) arena dei social media (dove questo confronto ha avuto il suo palcoscenico principale). La curiosità verso questo genere di eventi è sostenuta da una questione: dal punto di vista narrativo e argomentativo, gli influencer sono antagonisti pericolosi per la personalità semiotica del politico di turno oppure degli, inconsapevoli da quel punto di vista, adiuvanti?

Un primo indizio viene da una parte delle letteratura sulla celebrity politics. Secondo alcuni studi, infatti, parrebbe che gli influencer e le celebrità siano percepiti come fededegni ed efficaci quando sostengono delle cause classificate come morali più che squisitamente politiche. Il caso italiano di cui si parla parrebbe cadere in questa tipologia. Si tratterebbe perciò di un tema rispetto al quale il politico di turno, di fronte a un influencer, dovrebbe trovarsi meno a suo agio e tenersene perciò alla larga.

Allo stesso tempo, però, in qualsiasi confronto dialettico e retorico, l’argomento è tanto importante quanto colui che lo porta. Ora, per quanto classificato come morale, l’argomento di cui qui si parla è oggetto di un iter legislativo, dunque potenzialmente, e facilmente, incorniciabile (frame) in quel dominio tecnico-specialistico. Una volta riposizionato in quel campo semantico, il politico, se si danno le condizioni reputazionali e semiotiche adatte, può dotarsi di un dispositivo argomentativo incisivo: l’argomento ad hominem. Il confronto con un influencer, nel dominio semantico della politica parlamentare, dà l’occasione di usare sia un argomento ad hominem prevaricante che circostanziale. Si tratterà dunque di mettere in discussione la competenza dell’avversario oppure, o allo stesso tempo, di farlo cadere in contraddizione chiamandone in causa, per esempio, gli interessi privati.

Vi è poi l’arena in cui questi confronti trovano spesso il loro terreno di coltura, le reti sociali. Queste piattaforme hanno le loro affordance, plasmate sia dalla loro architettura “tecnica”, sia dalle pratiche sociali (discorsi e comportamenti, per esempio) che le persone generano all’interno di quegli edifici. Le piattaforme hanno dunque il loro funzionamento semiotico (le affordance sono semio-tecniche), e ciascuna a suo modo è in grado di innescare, con alcuni segnali discorsivi ricorrenti (pattern espressione di certi trigger valoriali e tematici), dei comportamenti che spesso producono degli effetti “virtuosi” sia all’interno delle piattaforme (e.g. reach) sia all’esterno (e.g. earned media),

È ora il caso di osservare pochi dati, ma esemplificativi degli effetti di quanto è accaduto e utili per rispondere alla domanda posta in precedenza. Sono dati raccolti nel momento in cui questo confronto politico vs influencer si è prodotto, su due piattaforme, FB e IG.

Se si guarda a IG, il confronto delle due fanbase è ampiamente diseguale.

Se si fa caso agli hashtag utilizzati nel periodo a cavaliere del lasso in cui il dibattito si ingenera, è degno di nota osservare che i due più utilizzati nei post del politico e dell’influencer sono, rispettivamente, #controcorrente e #adv.

Un altro dettaglio capitale: il politico, e i professionisti che si prendono cura della sua mediatized persona, si sono dimostrati ben consapevoli del funzionamento semiotico di quella piattaforma. L’account del politico ha infatti, nell’occasione, creato il post che ha generato la “conversazione” e l’ “evento mediatico” recuperando una tipologia di contenuto prodotta dall’influencer (una “storia”) che, proprio per effetto dell’architettura “tecnica” della piattaforma, sarebbe stato per sua natura effimero. Perché recuperare un contenuto che da lì a poco non sarebbe stato più visibile? Una simile operazione richiede mezzi e competenze, e la volontà non solo di tutelare l’aspetto reputazionale della propria attività, ma anche di assumere un atteggiamento pro-attivo nella costruzione di una certa “immagine” da proporre al “pubblico”. Un’operazione ormai necessaria, e in modo costante, nell’attuale semiosfera, ma che è ancor più richiesta se si vuole operare un rebranding e, con esso, un riposizionamento strategico. Pare questo il caso.

Vi è poi il contenuto del post del politico, dove l’argomento ad hominem viene effettivamente convocato, nella sua versione bifida, prevaricante e circostanziale.

L’effetto sulla qualità delle interazioni generate non è così scontato come la disparità di volume della base fan avrebbe potuto far pensare. In primo luogo, vi è il numero di interazioni per fan (che consente la comparazione) che dice di un politico che performa meglio dell’influencer dal momento della pubblicazione del post in poi (per qualche giorno almeno). Ma avrà raccolto solo critiche e invettive? Non proprio. Nei commenti, almeno tra quelli che hanno generato il maggior numero di sanzioni positive, l’argomento ad hominem sembra aver fatto breccia, e i consensi non sono così sporadici, anzi.

Il politico ha dunque “conversato” con una platea diversa da quella sua abituale, a cui ha potuto pure mostrare un certo consenso ricevuto, e ha attivato i nodi necessari per generare anche il tanto agognato, perché ancora fondamentale nella catena del passaparola, earned (legacy) media.

Una dinamica che si è riprodotta anche su FB, dove a controbilanciare il dazio pagato in termini di calo dei fan in quel frangente (come “follower growth average weekly”) vi è stato l’aumento considerevole dell’engagement, e dell’engagement di “qualità” se si fa riferimento a quel tipo di comportamenti che amplifica la visibilità del post (come le “condivisioni”, per esempio), e anche in questo caso da una trama dei commenti solo in parte critica.

Se si volesse allora provare ad azzardare una ipotetica risposta alla domanda “gli influencer sono antagonisti validi dei politici nell’arena della ricerca del consenso?”, si potrebbe dire che no, che sono anzi degli avversari “su misura”, se il politico e il suo staff hanno i mezzi, epistemici in primo luogo, per agire in modo consapevole nelle viuzze della semiosfera che si para loro davanti. Non è un caso che ve ne sia stato uno, spesso incensato negli scorsi anni per la sua capacità di abitare la platform society, che ha fatto del confronto con gli “influencer” un elemento fondamentale della sua strategia semiotica.

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Written by Andrea Picciuolo

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