Brand, aziende e istituzioni nel media manipulation life cycle
A causa di un malfunzionamento della sua piattaforma, qualche settimana fa, un noto OTT è entrato per alcune ore in uno degli shitstorm che quotidianamente attraversano i meandri della platform society, lambendo entità e oggetti di volta in volta diversi.
Il caso offre il pretesto per osservare le sfide “simboliche” che i brand (e non solo) affrontano nell’attuale semiosfera, alla prese (anche) con il fenomeno detto “media manipulation life cycle”. Sono sfide che premono sul posizionamento dei brand, dunque sulla loro identità, sulla loro personalità semiotica, e di conseguenza sugli attributi e sulle entità a loro associate dai vari pubblici. Sfide fondamentali, quindi. Comprenderle, e affrontarle, richiede un approccio strutturato alla cosiddetta analisi delle ricezioni. Il caso in oggetto è ancora più interessante da studiare, in quanto la risposta dell’azienda è stata, letteralmente, da manuale.
L’analisi delle ricezioni è praticata in molti modi; in questi esercizi, audience intelligence, content intelligence e media intelligence vengono messi al servizio di un’analisi formale e funzionale del dato semio-linguistico.
Come da alcuni suggerito, “media manipulation is distinct from media control, which occurs at the top level by the state and private sector. Furthermore, it is not inherently good or bad, nor is every media manipulation campaign reliant on disinformation or deception. Rather, we identify it as an insurgent strategy to both raise awareness and, in some cases, invoke an institutional response.”
Vale per le istituzioni, vale per i brand e per le aziende. E non è solo una faccenda di reputazione, certo importante. A una “buona” reputazione potrebbe ugualmente corrispondere un posizionamento non conforme al raggiungimento degli obiettivi in termini di framing, priming, e via elencando.
Una prima raccolta di dati tratti da un’attività di social intelligence era stata offerta nelle ore immediatamente successive al sorgere del caso.
In un primissimo carotaggio effettuato su circa 8k tweet generati durante il disservizio e nelle ore subito successive emergeva un primo tratto importante della “conversazione”: aveva coinvolto sin da subito dei nodi “influenti”. Account di quotidiani, account satirici, opinion leaders, per esempio. 25 utenti contavano, per citare solo un particolare, più di 100k follower. L’effetto di amplificazione mediatica era dunque garantito. E non solo mediatica. Le piattaforme sono infatti nodi di una rete discorsiva (e sociale) che li eccede. Le persone non abitano le piattaforme: la metafora, da un punto di vista analitico, è fuorviante. Indagare ciò che accade lì, serve per comprendere gli effetti, attuali e potenziali, che quei discorsi e quei comportamenti potranno avere sulla (molto più ampia) catena del passaparola (onlife, certo, e always-on, certo).
Se si guarda invece alla loro fanpage su Facebook, il primo dato che emerge è la performance del post con cui, alle 13:04, l’azienda riconosce il disservizio: è quello con il maggior engagement negli ultimi 90 giorni, e di gran lunga. Per dare un esempio del volume della conversazione: il post sfiora, come si vede nell’immagine, i 33k commenti.


Per apprezzare gli effetti che quella conversazione ha generato sul comportamento online delle persone, si può guardare anche alle ricerche effettuate su Google. Come si vede, neli ultimi 90 giorni, la chiave di ricerca ha un picco proprio l’11 aprile scorso.

Non solo. Un aumento “anomalo” dell’interesse si nota anche guardando alla crescita dei follower sulla pagina fan.

La reazione comunicativa dell’azienda, come si diceva, non è peregrina, è anzi da manuale. Vi è senza dubbio una certa prontezza nella risposta, e una distribuzione bifida del messaggio, sui touchpoint proprietari e attraverso un comunicato diffuso attraverso una grande agenzia di stampa. Salvo errore, solo il comunicato menziona il tema dei “rimborsi”. Per quanto possa sembrare paradossale, si tratta di un’applicazione in un certo qual modo consistente del cosiddetto “strategic silence”.
Se si tengono in conto solo questi aspetti(e ve ne sarebbero altri), la risposta ha però due potenziali difetti strutturali. Uno riguarda il contenuto (ma è il meno importante), l’altro la relazione con il pubblico coinvolto: il messaggio più efficace infatti, e immediato, e per certo dovuto e pure pertinente data la natura della “conversazione”, viene veicolato ai, e attraverso i, nodi “influenti”. Sta qui l’applicazione del “silenzio strategico”. Il messaggio veicolato in modo diretto al pubblico attraverso i touchpoint proprietari è invece pronto ma molto più vago. In tal modo, per di più, viene a mancare un’azione di empowerment verso quegli utenti che, visto il nuovo orizzonte comunicativo (e percettivo) in cui è ormai situata l’azienda, avrebbero potuto essere eletti, da un punto di vista narrativo, a early adopters (ricorrendo pure, a certe condizioni, a un’etica e a una estetica della “sperimentazione”).
Tra l’altro, l’assenza di un riferimento esplicito su FB ai rimborsi non mette la sordina alla conversazione (fatto che il “silenzio strategico” avrebbe dovuto garantire), ma al contrario la amplifica.
La richiesta si diffonde infatti nei giorni successivi sui vari post della pagina, aumentando l’esposizione di quel tema verso un pubblico potenzialmente più ampio del target “pertinente”.
Una prova empirica si ha osservando le tre wordcloud dei commenti che la pagina accoglie dal’11 aprile in avanti.
Questa è la wordcloud con le 50 parole più frequenti in tutti i post del periodo considerato.

Questa è la wordcloud delle 50 parole più frequenti nei post dell’11 aprile.

Questa è la word cloud delle 50 parole più frequenti nei post successivi all’11 aprile.

Uno sguardo anche alle emoji aggiunge qualche altra evidenza.
Queste le emoji più frequenti escludendo dal corpus i post dell’11 aprile:
🤣
😂
🤡
😡
❤
Queste invece le emoji più frequenti nei commenti ai post dell’11 aprile:
😂
🤡
🤣
😡
🤬
Anche per solcare le acque del “media manipulation life cycle”, l’analisi delle ricezioni deve ormai costituire il nucleo dell’attività di intelligence. E si aggiunga pure, tra le sfide, il carico interpretativo e percettivo generato dalle sequele della, ormai nota, review culture.
